di Elisa Filippi – articolo pubblicato sul quotidiano “Il Cittadino“
Mi è stato chiesto di scrivere una riflessione rispetto a quanto conta l’Italia in Europa. Volevo tentare di formulare una riflessione originale, che andasse oltre il luoghi comuni di un Paese sulle copertine della stampa europea per i festini del proprio Presidente del Consiglio, una riflessione che andasse oltre gli imbarazzi diplomatici e che parlasse invece della parte sana del nostro Paese, ovvero del “popolo” che rappresenta l’Italia in Europa. Ho pensato allora ai giovani ricercatori che si recano nelle università europee attirati dalla qualità della ricerca, ma anche dalle condizioni economiche che la rendono possibile, ai molti tirocinanti che giungono a Bruxelles con l’entusiasmo di lavorare per l’Europa e il più delle volte si trovano a lavorare non retribuiti e sulle spalle dei genitori, o ai funzionari delle istituzioni europee, ai molti professionisti che hanno deciso di scommettere in un progetto globale.
Riflettendo su questo, mi è venuto da chiedermi però se non sia forse il caso di domandarsi prima: quanto conta oggi l’Europa per l’Italia?
A giudicare dall’investimento di questo governo nella formazione e nella mobilità scientifica delle nuove generazioni: molto poco. L’Europa è considerata bacchettona quando evidenzia l’incongruità dei comportamenti del nostro Presidente del Consiglio e allo stesso tempo immorale quando si batte per il riconoscimento dei diritti delle unioni civili. L’Europa è percepita poi con insofferenza e ingratitudine, come una tediosa rompiscatole, quando pretende trasparenza e precisione nella rendicontazione dei finanziamenti che essa stessa eroga per la realizzazione di interventi pubblici. Come se il principio della responsabilità nella gestione del denaro pubblico fosse un peso.
Il timore è che, grazie anche ad una certa stampa, che in Italia sa essere compiacente quanto distratta, l’immagine veicolata delle istituzioni europee sia prevalentemente quella di una rigida burocrazia, che ingessa, che pone divieti e vincoli, che sanziona. L’Europa non significa solo regole e limiti, ma anche e soprattutto opportunità, bacino di buone pratiche, concentrato strategico di risorse economiche, sociali e culturali.
L’Europa ha saputo mostrarsi negli ultimi anni come l’arena politica in cui numerose ed importanti battaglie sono stata condotte; fra tutte la vera posta in gioco rispetto al futuro delle nostre economie è stata e viene dibattuta in quella sede attraverso la formulazione di precise politiche economiche e finanziare come ci mostra anche l’agenda del Consiglio Europeo del prossimo 15-16 dicembre.
Tra le priorità economiche e sociali, la sfida che è stata individuata come strategica, da Lisbona in poi, è certamente quella di rendere l’Europa l’ economia basata sulla conoscenza più competitiva al mondo.
E’ una scommessa che coinvolge tutti e soprattutto un Paese maturo come l’Italia, per cui non è più immaginabile competere per fattori come il costo del lavoro e per cui l’unico vantaggio competitivo resta la creatività, la ricerca, l’innovazione.
Su questo fronte come è messa l’Italia rispetto al resto dell’Europa?
I dati dell’European Innovation Scoreboard, strumento creato dalla Commissione Europea per monitorare i risultati della Strategia di Lisbona, parlano purtroppo chiaro: su 37 paesi analizzati l’Italia si posiziona solo al 23° posto nella graduatoria, con un punteggio che la colloca al di sotto della media europea e a notevole distanza dai paesi più avanzati.
Anche i settori “leggeri” del Made in Italy (come il tessile, manifatturiero) che fino a qualche anno fa presentavano dati più incoraggianti, mostrano oggi, in alcuni casi, preoccupanti segni di un sistema che necessita di essere urgentemente riformulato (si pensi alle sorti dello stabilimento OMSA a Faenza).
Una politica che sostenga l’innovazione nei processi produttivi richiede un approccio sistemico, per sua natura trasversale e complesso. L’aspetto che in questa sede mi interessa evidenziare è come anche e forse soprattutto in questo settore la dimensione europea appaia cruciale. La ricerca e l’innovazione hanno bisogno, per prosperare, di sistemi aperti, interconnessi che possano contare su una massa critica di risorse: finanziaria, infrastrutturale, tecnico-scientifica, propeduetici alla “cross-fertilisation”. L’Europa, anche come fonte di stimoli e bacino di buone pratiche, può fornire questo contesto. Basti pensare, che quasi la metà di quei 141,5 miliardi di euro che costituiscono il bilancio europeo è stata destinata nel 2010 a sostenere la competitività e la crescita sostenibile dell’Unione Europea. Si tratta di politiche e programmi che creano le condizioni per lo sviluppo di progetti di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, incentivano la competitività delle piccole e medie imprese e promuovono l’occupazione e la coesione territoriale.
L’assenza di una seria politica industriale, la frammentarietà e la trascuratezza delle proprie infrastrutture accademiche e scientifiche rendono difficile per l’Italia valorizzare le proprie eccellenze e beneficiare delle politiche messe in atto in ambito europeo.
La dimensione europea, che fornisce la massa critica qualitativa e quantitativa, ed il dinamismo dei sistemi locali (Università – impresa, distretti tecnologici, clusters dell’innovazione) possono costituire il binomio vincente nella sfida globale per lo sviluppo.
Rispetto agli interrogativi iniziali, si potrebbe rispondere alla luce di queste considerazioni affermando che in questo momento l’Italia in Europa conta relativamente poco e che allo stesso tempo in Italia si investe poco per essere in Europa, percepita come uno scenario distante e talvolta estraneo.
A dispetto della miopia politica di una destra caciarona e provinciale, l’attuale scenario emergenziale ci impone però di riportare l’ Italia al ruolo di “bottega e fabbrica dell’innovazione” per avere un ruolo più forte in Europa, per avere un’Europa più competitiva.
Riportare l’Italia in Europa e fare leva sull’Europa per rilanciare l’Italia dovrà essere l’impegno per una classe politica responsabile e riformista, che sappia trainare lo sviluppo del Paese e rafforzarne le istanze e la reputazione nello scenario internazionale.
Bruxelles, dic. 2010